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Grazie del disturbo

Da piccola per darmi un tono riutilizzavo le parole che sentivo dire dai grandi o che leggevo nei libri. «Non si dice così, è sbagliato!», mi ripetevano i miei dopo l’ennesima figuraccia davanti a ospiti o parenti lontani. Col senno di poi mi rendo conto che quelle stesse espressioni, applicate al contesto giusto, di senso ne hanno da vendere.

Ieri

1995, terza elementare. Durante la lezione di italiano mi si chiede di inventare tre mini racconti. Forte delle mie letture penso di piazzare là qualche bella parola forbita e così esce fuori la situazione di una vecchina che va in cantina e si accorge che, inspiegabilmente, la sua scorta di mele non diminuiva, bensì scemava.
Mi ricordo ancora quella sottolineatura ondulata rossa sotto la parola, proprio quella, che io avevo sparato a botta sicura avendola letta nel racconto La bambina venduta con le pere a pagina 26 della raccolta Fiabe Italiane di Italo Calvino. Per l’onta credo di non essermi nemmeno lamentata: era chiaro che, nel contesto di una storiella infantile, quel termine stonava pur essendo corretta dal punto di vista del significato, perché apparteneva ad un altro registro.

Ancor prima di ieri

1991, ho 4 anni. Io e i miei ce ne stiamo faticosamente andando dopo una visita barbosa a dei vecchi parenti; io mi alzo e, con una sicumera invidiabile, butto là un “Ciao, grazie del disturbo” che fa scoppiare a ridere tutti. Credevo di dire una cosa da adulta, peccato che la versione corretta fosse “Scusate per il disturbo”, formula garbata che mamma e papà aggiungevano sempre ai saluti, quasi a scusarsi della loro stessa esistenza. Ovviamente diventa un tormentone da ripetere negli anni a venire per farmi diventare rossa come un tacchino nelle rare riunioni familiari ma devo dire che me lo sono meritato.

L’altro ieri (in senso letterale)

2014, ho ventisette anni e un lavoro come copywriter freelance; con le parole ci vivo. Mi arriva un lavoro urgentissimo e delicato: la replica istituzionale di un brand alla contestazione da parte di un altro. Il caso è interessante e c’è del margine di creatività, così la penna scivola sui fogli fino a coprirne due di scritte, cancellature e schizzi vari. Devo parlare in modo chiaro e senza eccessi, per questo mi sforzo di buttare giù determinate parole o frasi in più versioni, riservando al committente la possibilità di scegliere non il concetto ma il modo in cui esprimerlo.
Sono gasatissima, le proposte sono tante, diverse tra loro e fanno tutte un bell’effetto nel leggerle; il tono è serio ma il registro non è troppo alto. «Ottimo lavoro», mi dicono. Poi mi arrivano le proposte definitive e i testi sono tutti scompaginati, una riga di questo è andata a chiudere la bodycopy di quello, la parola semplice che mi ero scervellata per trovare è stata sostituita con un’altra che sembra uscita da un trattato di economia o filosofia, le headline stesse sono state modificate.

Cosa metterò nel portfolio, l’idea di base di un qualcosa che, una volta elaborato, non assomiglia per niente a quel che avevo scritto?
E se tutto dovesse concludersi con un nulla di fatto (come temo), col cliente che rinuncia a rispondere e mantiene un profilo basso sulla vicenda, cosa mi metterò in tasca dato che, quando un progetto non va in porto, la buona pratica di pagare comunque la prestazione è fuori discussione?
Mi sa che ho appena trovato il contesto giusto per un bel grazie del disturbo.

grazie del disturbo
Visto che nessuno me lo dirà me lo scrivo da sola. Ma di cuore, proprio.

2 Commenti

  1. Marzia Marzia

    Mi è piaciuto questo articolo. Promemoria: inserire nel CV creatrice di nuovi contesti!

    • Ciao Marzia. Dopo il supporto creativo e strategico l’ultima frontiera potrebbe essere lo sviluppo contestuale… Un mercato inesplorato, fiondiamoci dentro! 😉 Grazie per l’apprezzamento.

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