Quando lavoro mi trovo molto spesso davanti al computer. Mentre mi perdo tra un’idea e l’altra a volte vago con la mente e cerco ispirazione nel mondo circostante. Se quello reale è troppo tranquillo mi tuffo in quello virtuale, nel quale tante persone diverse tra loro per età, provenienza, lavoro e pensiero condividono foto, stati, informazioni.
Da un lato mi piace molto, perché attraverso gli interessi degli altri raggiungo contenuti interessanti che altrimenti perderei, nella marea di stimoli che attraversano tutti ogni giorno; dall’altro mi trovo a leggere post che non mi piacciono: può essere per il modo in cui sono scritti, può essere per le notizie che contengono, a volte può essere semplicemente per il fatto di trovarmeli scritti lì, in una piazza pubblica, dove rischiano il patibolo. Non penso a fanatismi o ad affermazioni forti che è facile riconoscere come inapproriati in un ambiente social, parlo anche di sfoghi momentanei, prese di posizione su personaggi pubblici, espressioni troppo accese al di là dell’oggetto della discussione, atteggiamenti rigidi e arroganti nei confronti degli altri.
Mi viene la tentazione di rispondere, con un commento diretto o indirettamente con un mio post, inizio a scrivere ma poi mi impunto. Correggo la forma, tolgo alle parole quel carico di impulsività che le rende taglienti ma a quel punto mi rendo conto che il perché delle mie stesse parole è svanito insieme alla foga.
Prima non mi capitava, facevo esattamente le cose che ho scritto di non amare qualche riga fa: presa dai “cinque minuti” mettevo la mia rabbia sotto forma di parole e la lasciavo sotto al naso di tutti; quella provocazione avrebbe fatto uscire allo scoperto chi, secondo me, aveva la coda di paglia e avrebbe dovuto sentirsi coinvolto.
Con il passare del tempo (e dei post) ho notato che quasi mai il diretto interessato risponde, nemmeno capisce di esserlo, in fondo. Quando parliamo pensando di essere estremamente chiari (e lo facciamo però girando attorno ai nomi e alle cose che vorremmo davvero dire) otteniamo una non-comunicazione, perché scocchiamo una freccia che non è rivolta a nessun bersaglio, di preciso. La scocchiamo sperando che il bersaglio si faccia avanti per prenderla in pieno petto, oppure pretendiamo che, una volta scoccata, sia la freccia da sola a capire in che direzione andare ma non è possibile.
Per esempio: in un momento di delusione, amarezza, frustrazione, possiamo essere inclini a scrivere cose molto dure quando sotto sotto vorremmo solo lamentarci e trovare negli altri comprensione, sostegno, incoraggiamento a star male e a prendercela (comoda). Poi arriva un commento di qualcuno che da quelle parole di pietra si è sentito toccato e offeso, ed ecco che dobbiamo scegliere: o continuare a testa bassa nel nostro fastidio oppure ridimensionare le nostre stesse parole, mettere una pezza, cercare di spiegare, magari chiedere scusa.
Parlare in modo costruttivo, anche quando si fa una critica, è come essere certi di ascoltare prima di pensare a come rispondere: richiede molta attenzione e esercizio. Bisogna essere presenti in più posti contemporaneamente:
- nella propria testa, per essere sicuri di dare al nostro pensiero la forma (orale o scritta) che gli si modella meglio addosso;
- se stiamo parlando a un destinatario specifico, nella sua testa: conosciamo il suo vissuto e sappiamo intrecciarlo ai suoi pensieri? Siamo sicuri di poter parlare apertamente? Potremmo urtare i suoi sentimenti? Siamo pronti alla sua reazione?
- Se parliamo di persona, davanti a noi stessi: non accompagniamo le nostre parole con gesti o smorfie troppo netti e di chiusura, perché sono più adatti a un monologo che a un dialogo;
- se dobbiamo scrivere sui social, tra una folla immaginaria: il nostro pensiero è uno tra i tanti, può cambiare la nostra giornata ma non per forza cambierà il mondo. Chiediamoci se quel pensiero, oltre ad appagare il desiderio momentaneo di parlare di noi stessi, è utile e può essere condiviso con più persone possibili;
- nel passato: un esercizio utilissimo per imparare a scrivere meno e meglio è stato andare indietro nella mia timeline di Facebook di circa un paio d’anni e rileggermi tutte le cose che avevo scritto. È stato come mettere un grande insieme di lettere microscopiche sotto una lente d’ingrandimento. Mi sono sentita a disagio, perché non sempre ho scritto cose di cui vado fiera; in alcuni casi ho notato che il mio parere si è completamente capovolto. Altre volte ancora ho riso con me e ho ammirato la brillantezza di certe mie uscite, anche se non volevano comunicare granché. Ho riconosciuto una traccia di sottofondo che lega tutte le mie parole (che ha un nome: è il mio stile) e mi sono accorta quando spariva perché magari stavo dicendo cose in cui non credevo più di tanto. Adesso è un controllo che faccio periodicamente e che mi aiuta a mantenere i miei buoni propositi su quando, come e cosa dire.
Non sempre mi riesce del tutto, a volte scivolo e mi tuffo in discussioni dalle quali vorrei tenermi alla larga. Parafrasando il nuoto, atterro o di schiena o di pancia e il rossore sulla pelle è il segno che ho sbagliato qualcosa.
Se non possiamo più di tanto cambiare noi stessi (il nostro carattere, le nostre convinzioni, le cose che ci sono capitate) possiamo almeno lavorare sulla nostra immagine, che è quello che vogliamo far vedere di noi. Non si sa mai che alla fine ci accorgiamo che, se non parliamo e scriviamo in modo affrettato e arrabbiato, è perché affrettati e arrabbiati non lo siamo più davvero.
Questo pensiero conclusivo è stato ispirato dai risultati di un esperimento condotto sui bambini, in cui si dimostra che il cervello reagisce in modo autentico a determinati comportamenti, anche se sa che sono finti (se vuoi leggerli li trovi qui).
Ho scritto questo post vedendolo parola per parola dopo aver letto “Contro le bare verbali e le parole zombie” di Luisa Carrada e la ringrazio molto.
Commenta per primo